Il perché del profitto

Il-perché-del-profitto.jpg

TRADUZIONE DI UMBERTA MESINA.

Intorno al 1962, un governatore repubblicano dell’Ohio se ne venne fuori con lo slogan “Profitto non è una parola sporca in Ohio”. E molti sostenitori dell’economia di libero scambio avrebbero senza dubbio voglia di gridare “Profitto non è una parola sporca, punto”. Ma sporca o no, io vorrei suggerire che “profitto” è una parola o idea non ben compresa, e soprattutto che il concetto distributista di profitto differisce necessariamente da quello capitalista. Prima di esaminare questo punto, vediamo come si possa capire il profitto e poi quali sono le implicazioni di questo sia per il distributismo sia per il capitalismo.Prima di tutto che cosa intendiamo con la parola “profitto”? Ecco come lo descrive monsignor John A. Ryan:
[Un imprenditore] realizza che, dopo aver retribuito ogni sorta di lavoro, aver restituito gli interessi al capitalista e i canoni d’affitto ai proprietari dei terreni, avere stornato il costo delle manutenzioni e aver messo da parte un fondo che copra il deprezzamento, [quello che] gli rimane per sé .... costituisce la quota chiamata profitto.[note]John A. Ryan, Distributive Justice (New York : Macmillan, 3rd ed., 1942), 176.[/note]

Nella definizione di Paul Samuelson, il profitto è “i ricavi netti, o la differenza tra le vendite totali e i costi totali”.[note]Microeconomics, 27. [N.d.T. L’edizione non è indicata] Samuelson più avanti (p. 274) distingue le attività dai profitti economici. Da questi ultimi bisogna detrarre i “costi impliciti o costi-opportunità”, che includono il lavoro non retribuito di un imprenditore individuale o il “tempo di gestione non retribuito”, da confrontare con ciò che queste persone avrebbero guadagnato altrove, cioè con il loro costo-opportunità di lavorare come fanno.[/note] Sembrerebbe una definizione diretta e in un certo senso lo è. Ma che cosa esattamente significa questo importo? Perché c’è, o dovrebbe esserci, qualcosa di residuo per l’uomo d’affari dopo che tutte le spese sono state pagate? Quali elementi ne fanno parte o lo giustificano? Mons. Ryan, nel medesimo paragrafo da cui ho tratto la citazione, dà una risposta chiara alle nostre domande. Il profitto, come lui lo intende, è “la ricompensa per il suo [dell’imprenditore] lavoro di organizzazione e direzione e per il rischio a cui si è sottoposto”.Con questo, mons. Ryan offre una motivazione esplicita e una giustificazione implicita per il profitto. Il profitto deriva da una duplice fonte. Da un lato, il “lavoro di organizzazione e direzione” del titolare di un’impresa, dall’altro “il rischio a cui si sottopone”. Ora, il primo di questi elementi è effettivamente una remunerazione del lavoro del titolare ed è qualcosa a cui ha certamente diritto. Abbia o non abbia altri che lavorano per lui, l’imprenditore compie quasi sempre qualche tipo di lavoro gestionale, e magari anche molto di più, per il quale egli merita una remunerazione, come qualunque altro lavoratore. Il secondo elemento che genera il profitto – il rischio a cui l’uomo d’affari si sottopone – è più complicato ed è particolarmente associato all’economia capitalista.Il rischio può esistere per due motivi. Uno è il rischio normale a cui un imprenditore è soggetto. L’altro è il particolare tipo o grado di rischio associato con l’offerta di un prodotto o servizio nuovo o migliore. In un’economia capitalista c’è sempre un rischio considerevole, dato che il tasso di fallimento delle imprese è alto.[note]Secondo i dati del Bureau of Labor Statistics (“Entrepreneurship and the U.S. Economy” http://www.bls.gov/bdm/entrepreneurship/bdm_chart3.htm) che sorvegliano l’apertura di nuove imprese fin  dal 1994, dopo cinque anni quasi metà ha cessato l’attività, arrivando al 65% dopo dieci anni. Naturalmente alcune di queste chiusure sono fusioni, acquisizioni da parte di altre imprese e simili. Non sono tutti casi di fallimento.[/note] Ma nel caso di un prodotto nuovo ci sono spese extra per far conoscere al pubblico il prodotto e i suoi vantaggi, per esempio. Sembra adeguato che chi si assume il rischio di fornire qualcosa di nuovo – purché naturalmente si stia parlando di un prodotto veramente utile – abbia diritto a una qualche ricompensa per esso. Nel caso del rischio ordinario compreso nelle operazioni di un uomo d’affari in condizioni capitalistiche, sembra meno chiaro che sia dovuta per esso una ricompensa particolare, visto che il rischio è comune a tutti o quasi tutti i titolari di imprese. Come vedremo più avanti, il distributismo elimina il tipo di rischio causato dalla semplice competizione sul mercato.Ad ogni modo, quando il profitto, anziché essere inteso quale ricompensa per il lavoro e (eventualmente) ricompensa per il rischio, è inteso esclusivamente come “la differenza tra le vendite totali e i costi totali”, non c’è alcuna proposta sul perché un simile importo dovrebbe esistere. Succede e basta; e naturalmente quelli che godono di tali profitti vorrebbero che questi fossero i maggiori possibili. In questo modo di vedere, non c’è alcun legame morale tra i profitti e il lavoro o il rischio del proprietario dell’impresa: non c’è legame morale con niente. Così, se i proprietari riescono ad ottenere grandi profitti, questo non crea loro problemi morali, perché il profitto (in questo quadro) non possiede né ha bisogno di alcuna giustificazione morale. Ma quando il profitto è spiegato come fa mons. Ryan, quale compenso per il lavoro e il rischio, allora abbiamo l’indicazione che i profitti debbano avere una qualche relazione ragionevole con il lavoro e il rischio. Per esempio, se qualcuno che si assume un rischio per fornire un bene o servizio necessario ha diritto a una ricompensa, allora si può ritenere che maggiore è il rischio maggiore dovrebbe essere la ricompensa. E se parte del profitto ricevuto è il compenso per il lavoro del proprietario, questo dovrebbe essere in maniera simile proporzionato alla quantità e al tipo di lavoro. Se accettiamo l’idea di mons. Ryan di ciò che è il profitto, allora l’imprenditore non ha diritto a un compenso non definito, a qualunque capiti che sia “la differenza tra le vendite totali e i costi totali”, ma i suoi profitti devono avere una qualche relazione ragionevole con il suo lavoro e il rischio che si assume. Se un uomo d’affari sta diventando immensamente ricco, soprattutto se ciò accade in breve tempo, c’è motivo di sospettare che qualcosa non vada come dovrebbe: o i suoi clienti stanno pagando troppo o lui non sta pagando giusti compensi ai suoi lavoratori.[note] Riguardo a quest’ultimo punto, Pio XI insegna chiaramente nella Quadragesimo anno che i capitalisti hanno spesso reclamato per sé una quota della produzione economica totale molto più ampia di quella a cui avevano diritto. «Il capitale .... reclamò tutti .... i profitti e lasciò ai lavoratori il minimo indispensabile ....» (par. 55). «Bisogna pertanto fare ogni sforzo perché almeno in futuro solo una giusta quota dei frutti della produzione si accumuli nelle mani dei ricchi e perché una parte largamente sufficiente sia attribuita ai lavoratori ....» (par. 63)[/note]In un’economia capitalista il profitto è correttamente inteso come comprensivo sia dei compensi per l’imprenditore o titolare sia di una qualche ragionevole ricompensa per il rischio. Ma nella maggior parte dei casi quest’ultima non sarebbe presente in un’economia distributista. Come mai? Perché il distributismo non è semplicemente una maniera diversa di organizzare l’economia, ma rappresenta necessariamente un approccio diverso all’attività economica e al perseguimento della ricchezza, con un atteggiamento che fu generato e favorito nella cultura cristiana dell’Europa medievale. Questo atteggiamento fu ben descritto dallo storico padre Bede Jarrett:

Possiamo dunque enunciare come primo principio dell’economia medievale l’esistenza di un limite all’arricchimento imposto dallo scopo per cui la ricchezza serviva. Ogni lavoratore doveva tener presente lo scopo della propria vita e considerare l’accumulo di denaro semplicemente come un mezzo rivolto a un fine, che nel medesimo tempo lo giustificava e gli poneva un limite. Quando dunque si era raggiunta la sufficienza non c’era motivo per ulteriori sforzi tesi ad arricchirsi .... se non allo scopo di aiutare altri.[note]Social Theories of the Middle Ages (Westminster, Md. : Newman, 1942) pp. 157-158. L’intero capitolo “Money-Making” va da pagina 150 a pagina 180.[/note]

Anche se l’avidità personale continuerebbe senz’altro ad esistere anche in un’economia distributista, le istituzioni economiche, anzi, tutte le strutture sociali scoraggerebbero per quanto è possibile una simile avidità e cercherebbero in particolar modo di prevenire gli effetti sociali dell’avidità. Così, in una società del genere la ricompensa per l’innovazione o l’invenzione potrebbe essere data in maniera formale attraverso la corporazione a cui uno apparterrebbe. In altre parole, qualunque scoperta, come un nuovo metodo di produzione o il miglioramento di un prodotto esistente, diverrebbe automaticamente proprietà dell’intera corporazione e l’inventore o scopritore riceverebbe una ricompensa dalla corporazione. Dobbiamo inoltre ricordare che un’economia di corporazione tenta di mantenere un equilibrio di massima tra il bisogno di un certo bene o servizio e la sua fornitura, così da eliminare la concorrenza tra produttori, concorrenza che porta a tutti i problemi caratteristici di un sistema capitalista. Pertanto i fallimenti di aziende sarebbero più rari e non un semplice sottoprodotto delle condizioni di concorrenza.Il capitalismo incoraggia l’idea che l’attività economica esiste per l’arricchimento personale e che più ti arricchisci meglio è. Il distributismo incoraggia l’idea cristiana che l’attività economica esiste per provvedere alle necessità umane, inclusa naturalmente la necessità che il produttore ha di un guadagno dignitoso e ragionevole per vivere e sostenere la propria famiglia. La remunerazione del produttore o del commerciante sarebbe – per dirla con san Tommaso d’Aquino – solo un pagamento per il suo lavoro (stipendi laboris) e un simile guadagno sarebbe perseguibile lecitamente per sostenere la propria famiglia o per dare elemosine o per provvedere al benessere comune.[note] Summa Theologiae II-II q. 77, a. 4 [vale a dire: Seconda parte della seconda parte, argomento 77, articolo 4. In rete è disponibile la traduzione integrale della Summa fatta dal padre Centi. N.d.T.][/note] Questo atteggiamento verso la ricchezza è radicato profondamente nell’insegnamento della Chiesa, sia nella Sacra Scrittura sia nel magistero pontificio. Nella prima lettera a Timoteo san Paolo scrive:

Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo. Invece quelli che desiderano essere ricchi cadono nella tentazione, in un laccio, in molti desideri insensati e dannosi che fanno piombare l’uomo nella rovina e nella distruzione. Perché l’amore per il denaro è la radice di tutti i mali; è a causa di questa brama che alcuni si sono allontanati dalla fede e si sono lacerati il cuore con molti dolori (1Tim 6,8-10).

E come scrisse Giovanni Paolo II nella Centesimus Annus, paragrafo 36:

Non è sbagliato desiderare di vivere meglio, ma è sbagliato presumere che quel “meglio” sia uno stile di vita orientato all’avere e non all’essere, che vuole avere di più non per essere di più, ma per consumare la vita in un godimento fine a se stesso.

Una delle più essenziali, ma apparentemente più difficili lezioni economiche che l’uomo di oggi dovrebbe imparare, o meglio re-imparare, è che i beni economici, incluso il denaro, surrogato universale per i beni reali, esistono per servire e sostenere la vita umana nella sua pienezza. Per quanto siano necessari, essi non sono fini a sé stessi. Può giungere il momento in cui una persona possiede di questi beni a sufficienza e se continua a cercarne ancora, senza un motivo adeguato, in effetti danneggia la propria vita spirituale e compromette la propria anima. La nostra società guarda con favore alle grandi ricchezze e gli amministratori delegati che guadagnano in un anno più di quanto potrebbero ragionevolmente spendere in una vita intera, anziché essere allontanati come criminali antisociali o compatiti come spregevoli sciocchi, sono invidiati e si cerca di imitarli come vincitori di successo nel gioco capitalista.Il fatto che sia così, il fatto che la ricerca e l’accumulo di immense ricchezze sia un’occupazione socialmente accettabile, indica il fatto che i punti di riferimento morali della nostra società non sono basati su quelli di Gesù Cristo. Il capitalismo, anzi, ha avvelenato il senso morale. Questo è uno dei modi in cui un’economia distributista, e in senso più ampio una società distributista, può aiutare a ri-orientare i nostri desideri dal mero guadagno verso le cose che sono più importanti. Queste ultime sono i veri affari della vita umana, checché se ne possa pensare. La ricchezza corrompe, un’immensa ricchezza corrompe in maniera totale. Con questo possiamo parafrasare lord Acton ed esprimere una verità altrettanto importante di quella originale.

Thomas Storck

Thomas Storck is the author of Foundations of a Catholic Political OrderThe Catholic Milieu, and Christendom and the West. His recent book is An Economics of Justice & Charity. Mr. Storck serves on the editorial board of The Chesterton Review and he is a contributing editor of The Distributist Review. An archive of his work may be found at thomasstorck.org.

http://thomasstorck.org
Previous
Previous

Socialism, Capitalism, and Materialism

Next
Next

Flandria Village