Il distributismo possibile c’è già

Sierra-Leone.jpg

Quale potrebbe essere una fotografia dell’idea distributistica in pochi sintetici punti? Potremmo dire, con approssimazione ma con verità: la famiglia al centro della società e del processo economico, la piccola proprietà al centro dei processi economici a disposizione dei piccoli proprietari, l’arte, il lavoro e la creatività di ciascuno al centro dei processi sociali ed economici, il valore di lavorare insieme con gli stessi obiettivi mossi non dall’accumulazione ma dalla crescita intelligente e possibile, la costruzione di uno stato distributista così Dice Chesterton in un brano abbastanza noto: «L’attuale sistema sociale che, nella nostra epoca e nella nostra cultura industriale, subisce seri attacchi ed è afflitto da problemi penosi, è tuttavia normale. Mi riferisco all’idea che la comunità è costituita da alcuni piccoli regni nei quali un uomo e una donna diventano il re e la regina esercitando un’autorità ragionevole, soggetta al senso comune della comunità, finché coloro che essi educano diventano adulti e fondano regni simili ed esercitano a loro volta un’autorità simile. Questa è la struttura sociale dell’umanità, molto più antica di ogni sua cronaca e più universale di tutte le sue religioni; i tentativi di modificarla sono solo parole al vento e buffonate».[note]Gilbert Keith Chesterton, La mia fede.[/note] Questo è, davvero in pillole, il distributivo per come i suoi maggiori ed insuperati mentori (Chesterton, Belloc e McNabb) lo pensarono. È un programma possibile, ma prima ancora di tutto ciò bisogna mettere a tema la cosiddetta questione dello scopo e la questione educativa (vedi Stratford Caldecott, La questione dello scopo, e Un’educazione distributista). In altre parole occorre chiedersi quale sia lo scopo del nostro lavoro quotidiano e quale mondo vada a costruire. Ritengo che siano questioni imprescindibili.Ora, dinanzi a questo “programma”, la prima obiezione proveniente dalle persone dotate di un bagaglio culturale “convenzionale” è: ti ascolteremo quando ci dimostrerai “scientificamente” che il distributismo è sostenibile dal punto di vista dell’economia “convenzionale”. In altre parole: tiraci fuori grafici, equazioni e teorie, dimostraci che il distributivo è meglio del capitalismo e (forse) ti seguiremo.Rispondo: la scienza economica dovrebbe primariamente “fotografare” la realtà e non imporle una cavezza come si fa con un cavallo. Per cui se esiste una realtà distributistica, costituita da famiglie, persone, imprese, ebbene, le scienze economiche dovrebbero procedere a fare la fotografia di questa “vita” con grande rispetto e non cercare di “ridurre” il distributismo alle formule dell’economia capitalistica, perché la bocciatura è Il motivo per cui tale operazione sarebbe ingiusta risiede proprio nella “questione dello scopo” evocata dal grande Stratford Caldecott (per cosa ci muoviamo, produciamo, lavoriamo?). Su questo gli ideali divergono fortemente. Chesterton temeva in egual misura capitalismo e socialismo, e il perché era chiaro.Presupposti ed obiettivi del capitalismo (anche dell’originale modello creato in Cina, che rende ancor più vero quanto detto dai nostri Chesterton e Belloc) e del distributismo sono diametralmente opposti, quindi. Ma il distributivo non solo è possibile, ma è l’unico modello di sviluppo realmente umano possibile.Che il distributismo sia possibile non lo dimostrano solo esperienze molto note, portate ad una certa notorietà dalla letteratura (un’esperienza su tutte è il caso della cooperativa Mondragon), ma anche esperienze meno note che vorrei che tutti conoscessero. Uno degli esempi più vivi e calzanti è il Sierra Leone Chesterton Center, ideato da John Kanu nel distretto di Kono del paese africano. John ebbe l’opportunità di conseguire un master in Scienze Sociali a Oxford tra il 1999 e il 2002, verso la fine della guerra civile che insanguinò per dieci anni il paese, e lì conobbe Stratford Caldecott che gli aprì le porte della sua casa oltre che della conoscenza di Chesterton e del distributismo. In breve Kanu comprese che il suo destino puntava nuovamente verso la Sierra Leone. In pochi anni John ha organizzato una rete di cooperative di coltivatori che ha raggiunto l’autonomia alimentare e che ha iniziato ad investire nel commercio degli ortaggi vendendo gli stessi nei maggiori centri del paese. Da due anni è in atto una collaborazione tra la Società Chestertoniana Italiana che presiedo e il Sierra Leone Chesterton Center per la creazione di una scuola professionale che abbia lo scopo di educare i cooperatori ai mestieri che costituiscono il nerbo della convivenza sociale della loro area.Direte: il distributismo può funzionare in un paese come la Sierra Leone, a base prevalentemente agricola e a livello zero quanto ad infrastrutture e simili. È invece possibile costruire il distributivo anche in Italia, non servendosi della cooperazione come aspetto esterno per affrontare il mercato inteso capitalisticamente, ma attuando dei comportamenti di reale libertà che sono necessari per liberare forze, inventiva ed energia per il nostro paese ingessato da visioni sociali ed economiche perdenti e distruttive della famiglia.Infatti sono personalmente coinvolto in un’esperienza di distributismo concreto ed attuale di cui vi dirò maggiormente in futuro; posso raccontarvi una piccola esperienza esemplare perché ritengo sia indicativa della rivoluzione che Chesterton e Belloc chiedevano ai loro contemporanei e continuano a chiedere a gran voce a noi oggi. Ecco come abbiamo acquistato il terreno e la casa di Santa Lucia. Le nostre cooperative sono nate a San Benedetto del Tronto, nelle Marche, Centro Italia. Abbiamo deciso di acquistare un terreno agricolo con un piccolo campo sportivo ed un fabbricato rurale a beneficio delle molte attività della nostra Opera Chesterton (comprende una scuola, una società sportiva, un servizio di doposcuola, un’impresa che reinserisce nel lavoro i soggetti svantaggiati e si occupa di lavori edili, agricoli, gestioni di strutture come palazzi dello sport, cimiteri ed altro). Decidemmo di partecipare a due aste (i beni erano pubblici e venivano dismessi dall’ente proprietario) che vincemmo, e quando fu il momento di pagare decidemmo di seguire una via non convenzionale. Tutte le imprese in situazioni simili chiedono un mutuo in banca e pagano in questo modo. Noi abbiamo deciso di acquistare il bene autofinanziandoci mediante la sottoscrizione di un aumento del capitale sociale della cooperativa acquirente e la raccolta dei risparmi dei soci della cooperativa con lo strumento dei libretti di risparmio cooperativo (un’opportunità prevista e disciplinata in Italia dalla normativa sulla cooperazione). Il bene è oggi di tutti noi soci e non è un favore concessoci da una banca, per quesito bene ciascuno ha messo a disposizione di tutti le proprie risorse perché contribuirà a far crescere anche il suo benessere. Il benessere di cui parliamo è diverso da quello che ci prospetta il capitalismo, fondato sull’accumulazione del denaro. Parliamo di un luogo che sta incentivando le nostre relazioni umane, la collaborazione tra famiglie oltre i limiti della “buona educazione”, il sostegno reciproco, l’incontro finalizzato a costruire insieme luoghi di bene e di accoglienza. In questo senso non è molto differente quello che accade in Sierra Leone da quello che accade sul Colle di Santa Lucia a San Benedetto del Tronto.Quindi abbiamo messo in atto non il ricorso al credito attraverso le banche, via classica al capitalismo, che anzi sostanziano il grande capitale e l’idea di accumulazione nelle mani di pochi, ma il ricorso al credito reciproco per l’edificazione di un modello differente e valido di società, non soggetto alle crisi ricorrenti del capitalismo.In sintesi: il distributivo è già tra noi, dobbiamo solo lasciarlo crescere e dargli energia.

Marco Sermarini

Marco Sermarini is a criminal lawyer, rector and founder of Scuola Libera Gilbert Keith Chesterton, San Benedetto del Tronto, Le Marche, Italy, where he lives with his wife Federica and their five children.

Previous
Previous

Share and Share Alike

Next
Next

Five Years a Farmer: Lessons in Community and Hardship